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Due biglietti per l'invisibile

Due biglietti per l’invisibile

I biglietti li avevo comprati a inizio ottobre. Dovevano essere il regalo di compleanno per un’amica, prima di scoprire che a Firenze c’era Marina Abramovic, più affine ai suoi gusti artistici.

Così quei due biglietti li ho tenuti io, appoggiati sul tavolo in ingresso, pensando che fosse un luogo strategico per non dimenticarmi della loro esistenza e finendo invece per abituarmi ad averli lì, come parte dell’arredamento, senza quasi più vederli. Talmente abituata a vederli, da non vederli.

E’ stata una corrente d’aria a spostarli da dove erano, facendoli volare a terra e costringendomi così a ri-vederli, in tutta la loro urgenza di essere utilizzati prima che fosse troppo tardi.

Da diverse settimane ero alle prese con la sindrome da pagina bianca per questo contributo sul primo numero di Mongolfiere Tascabili: tante idee confuse, tanti concetti da voler condividere, nessun filo logico cui aggrapparmi per uscire dal vortice del brainstorming con me stessa. Di difficile comprensione per me, figuriamoci per il potenziale lettore.

Tre ore di treno, otto fermate di metro e una decina di minuti di coda più tardi mi hanno portata all’intuizione che stavo cercando.

Banksy è uno degli artisti più famosi e controversi del panorama contemporaneo. La sua strategia di voler lavorare nell’ombra e non rivelare la propria identità anagrafica è una condizione necessaria e irrinunciabile per sfuggire a ogni tipo di controllo: sull’INVISIBILITÀ’ Banksy ha costruito la sua popolarità.

Queste le prime parole che accolgono il visitatore della mostra “A VISUAL PROTEST. The art of Banksy”, fino al 14 aprile al Mudec di Milano.

Un’ottantina di lavori di quello che è considerato uno dei maggiori esponenti della street art contemporanea. Una provocante e coinvolgente protesta visiva che trascende le barriere linguistiche grazie all’uso metaforico di immagini geniali e brillanti ma al tempo stesso semplici e accessibili.

Provata da settimane di pensieri infruttuosi e incoraggiata da quell’introduzione scritta sul muro, inutile dire che la mia chiave di lettura durante tutta la visita è stato proprio il tema “quello che non vediamo”.

E se la prima cosa che non vediamo è appunto proprio l’artista – che ha deciso di restare anonimo e invisibile – e forse la seconda sono alcuni dettagli dei suoi lavori che, come in tutte le opere artistiche, possono essere colti solo dopo lunghe, attente e ripetute osservazioni, l’aspetto più sorprendente e interessante è stato realizzare quanto ciò che è ben visibile nella mostra sia in realtà ciò che nel nostro quotidiano molto spesso invece non vediamo, più o meno consapevolmente.

Per un artista che intende l’arte come protesta, denuncia e disubbidienza al sistema, ciò che conta non è tanto la forma, quanto il messaggio. E per veicolare al meglio questo messaggio, Banksy è riuscito a creare un linguaggio multiculturale e immediatamente riconoscibile: inserendo sempre nei suoi soggetti una nota apparentemente incongrua o spiazzante, cattura la nostra attenzione e ci induce a una maggiore profondità di osservazione per cogliere il reale significato di ciò che ci sta di fronte.

Un elicottero da guerra con un fiocchetto rosa, un topo in completo elegante e ombrello, un leopardo che fugge da una gabbia rappresentata da un codice a barre, una bambina che abbraccia una bomba al posto di una bambola: metafore sul mondo e sulla società in cui viviamo che colpiscono al cuore e allo stomaco.

Ma nella realtà di tutti i giorni, nella nostra quotidianità, quanto realmente vediamo gli effetti delle guerre, del consumismo, del conformismo, delle migrazioni, dell’arroganza del potere? Quanto decidiamo di ignorarli consapevolmente? Quanto a volte li vediamo così tanto da esserne assuefatti, finendo così pericolosamente per non vederli affatto?

In questo, a mio avviso, sta il grande pregio dell’opera di Banksy. Nel rendere di nuovo visibile – e consapevole – ciò che per il fatto di essere stato troppo visto o visto male, non viene (più) visto.

Qualcuno di voi potrebbe obiettare che si tratta di temi “più grandi di noi”, quasi inafferrabili, per certi versi distanti. Forse in parte è vero. Proviamo allora a pensare alle cose che non vediamo più banali, più vicine a noi, più alla nostra portata.

Dopo dieci minuti e la mia lista è questa:

QUELLO CHE NON VEDO

  • La mia schiena
  • Le persone che non ci sono più
  • I miei organi interni
  • Quello che va in onda su La7 mentre guardo Rai3
  • Quello che fanno i gatti a casa mentre io sono al lavoro
  • Le espressioni del mio viso mentre parlo con qualcuno
  • La maggior parte delle cose che succedono nel mondo
  • I processi che stanno dietro le cose che utilizzo ogni giorno, dall’automobile allo spazzolino, dagli spaghetti al letto in cui dormo.

 

Ora, se escludiamo i programmi televisivi che ormai possono essere visti in replica online e le abitudini dei gatti che probabilmente sono abbastanza banali, mi sembra che tutto il resto abbia non poca influenza sulla nostra vita.

Prendiamo l’esempio dell’automobile. La maggior parte di noi la usa, come conducente o come passeggero, per andare al lavoro, per portare a scuola i figli, per le vacanze. Si sale a bordo, si allacciano le cinture, mani e piedi si coordinano su volante, cambio, acceleratore, freno e frizione, ci si ricorda di fare il pieno quando serve, si fa manovra per parcheggiarla in garage. Ma quanti di noi sanno chi l’ha ideata quell’automobile, come è stata progettata, come è stata costruita e assemblata, chi l’ha collaudata, come è arrivata al concessionario che ce l’ha venduta? Di quell’auto, quanti aspetti, in realtà, non vediamo?

Pensate a quante cose utilizziamo ogni giorno senza porci troppe domande, dando per scontato che funzionino bene, che non siano per noi dannose. Se mi fermo a rifletterci, giungo alla conclusione che sono molte di più le cose che non vediamo, rispetto a quelle che vediamo. E mi chiedo: come possiamo vivere così? Come possiamo permetterci di ignorare così tanti particolari che, se pur indirettamente, ci riguardano? La risposta che mi sono data è che possiamo farlo perché altri vedono quello che noi non vediamo. E questo, a sua volta, implica che in certi casi saremo noi quelli che vedono ciò che altri non vedono. Ci pensate, quindi, a quanto, pur non sapendolo, dobbiamo fidarci l’uno dell’altro? A quanto siamo profondamente interconnessi? A quanto importante è essere quantomeno consapevoli di quello che non vediamo?

Come fare?

Impariamo l’arte del guardarci attorno, dell’osservare lentamente, non solo usando la vista, ma mettendo in discussione le nostre convinzioni, scardinando gli schemi e le strategie che ci hanno guidati in passato. Gli schemi ci aiutano ad orientarci nel mondo, certo, ma che fare quando i fatti non corrispondono allo schema?

Dobbiamo porci delle domande su quello che stiamo guardando per smettere di dare le cose per scontate e iniziare davvero a vedere ciò che ci circonda. “Bisogna sforzarsi di cambiare punto di vista. Guardare le cose dalla prospettiva di chi ha un interesse diverso […]” (Gianrico Carofiglio, La versione di Fenoglio, Einaudi).

Dobbiamo provare a rendere visibile l’invisibile.

Dopo la laurea in Psicologia, mi divido fra cooperazione sociale e impianti di aspirazione. Se dovessi reinventarmi, aprirei una fioreria-libreria o farei la correttrice di bozze. Credo nelle persone, nel bene che possono fare. Mi piace l’azzurro, il mare d’inverno, i tulipani e il gelato anche se fa freddo. Sogno la Norvegia ma ho lasciato un pezzo di me in Burundi. I miei compagni di scuola dicevano di me AnnaS, altrimenti si giravano anche AnnaB e AnnaDZ. Il libro che ho sul comodino è “E’ tutto calcolato!” di Lorenzo Baglioni. Ma sotto c’è “Le mani della madre” di Massimo Recalcati. E sotto ancora “Ti prendo e ti porto via” di Niccolò Ammaniti. Domani vorrei un bassotto, un lungo viaggio, di più.