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Come se fossi Bianca

I colori di novembre

Ci insegnano che mentire è sbagliato e che dobbiamo essere sinceri. Ce lo dicono fin da quando siamo piccoli: “Non raccontare bugie”. 

Io, quando ho iniziato a mentire, è stato per dire una bugia veramente grossa. E quella bugia mi ha cambiato la vita. In meglio, devo dire. 

Perché arriva un momento in cui bisogna lasciar stare i sogni e immergersi nella vita vera. E la vita vera, a volte, sa essere davvero cruda.

Ora vivo come se non nascondessi niente. Ma questo non è affatto vero.

 

Mattina. Novembre. Profumo di brioche. L’aloe gigante davanti al Fonzari. Un piccione obeso cammina nel Viale. Mi infilo nelle porte a vetri dell’Astoria. Percorro gli scalini coperti dal tappeto rosso. Entro nel centro benessere ancora deserto dopo aver attraversato il corridoio seminudo. Non c’è nessuno.

La sala d’aspetto tace, le sedie attendono vuote all’angolo. C’è un’aria soffice e tranquilla. Conosco bene questo posto. Lavoro qui da sei mesi ma mi sembra già casa mia.

Appendo il cappotto, infilo la divisa, raccolgo i capelli in una coda. La prima cliente è in arrivo. Deve fare una ceretta. Poi ho una pulizia del viso, tre manicure e una ricostruzione col gel. La cliente non arriva, sta tardando. Quando è così ho più tempo per me, per stare coi miei pensieri. Non sempre è un bene. Poi, eccola, la vedo arrivare dal corridoio, dove ho appena acceso le luci, avanza immersa nella luce gialla che si confonde con quella bianca del mattino. La invito ad accomodarsi, lei entra nella stanza, si spoglia e io mescolo la cera rosa. Sono pronta. 

 

Non ho mai fatto l’estetista prima di quel pomeriggio in spiaggia. Ma non è difficile imparare le cose. Basta leggere e poi applicarsi con attenzione. È quello che ho sempre fatto, leggere. Sono laureata in lettere non per niente. A qualcosa mi ha pure portato.

 

La paziente si sistema sul lettino riscaldato e io applico il primo strato di cera. Fuori il mondo è ancora in silenzio. Comincia piano a risvegliarsi. Qui, in città sonnolenta dove l’unica cosa che è cambiata sono io.

 

Sono tornata nel mio paese perché avevo perso tutto. Soprattutto la fiducia. Dopo una laurea inutile, avevo capito che non avrei mai trovato un lavoro che centrasse con i miei studi. Così avevo compiuto il primo passo verso l’accettazione della sconfitta. Subito dopo ne ho compiuto un altro. Verso la menzogna.

 

Nel pomeriggio di cui parlo ero seduta sugli scogli della diga e sotto di me si allungava la striscia di sabbia scura che avanza o si ritrae a seconda della marea. Onde basse divoravano la riva, rilasciando una schiuma leggera. Alcune alghe giacevano sfinite sulla roccia. Due ragazze poco distanti da me chiacchieravano.

“Ti hanno detto quando inizierai a lavorare?”

Diceva una, magra coi capelli corti.

“No. A dire il vero non ci sono andata”

Aveva risposto l’altra, bionda.

“A lavorare?”

“No. Non sono andata neanche al colloquio. Ci vuoi andare tu?”

“Sai che lavoro già dai miei”

“Già”

La ragazza bionda si era voltata verso l’amica.

“Vado a Berlino”

“A Berlino?”

“Sì. Carlo va là. Lo seguirò”

“Ma sei sicura?”

“Sì” aveva gridato la ragazza e aveva lanciato dei fogli.

“Il curriculum non mi serve più. Che vada al mare”

Aveva riso. Il curriculum era volato via e, trasportato dal vento, era atterrato ai miei piedi. L’avevo afferrato.

“Dai, andiamo!” 

Aveva riso la bionda prendendo per un braccio l’amica.

“Ho un sacco di cose da fare adesso”

“Tipo?”

“Tipo la valigia. E iscrivermi a un corso di tedesco. Per rifare il curriculum”.

Bianca Mari, diceva il nome sul curriculum. Avrei voluto restituirglielo ma lei era già andata via. Le amiche stavano salendo i gradini della diga che le riportavano verso la passeggiata. Presto sarebbero scomparse dietro i pini e tornate nel Viale.

Quel nome era rimasto davanti a me, col suo elenco di competenze nel mondo dell’estetica snocciolato come un invito. L’avevo studiato un po’ e poi era diventato il mio. E quel curriculum il mio documento di identità.

È così che sono diventata Bianca Mari.

 

Fabbricarsi una carta di identità non è poi così difficile, se si è bravi col pc. E neanche fare una ceretta se, per risparmiare, ce la si è fatta da sola per anni. Per il resto ci sono i tutorial di YouTube. 

 

Nel mio paese, nessuno si ricordava di me. Avevo perso molti chili, colorato i capelli e fatto lo shatush, quella moda lanciata da Belén che aveva arricchito L’Oréal e a cui mi aveva costretta la mia parrucchiera. Andando via da qui mi ero rinnovata. Ero cambiata. Ero diventata un’altra. Mentre i miei genitori, morti da tempo, si allontanavano nel ricordo e mia nonna inevitabilmente invecchiava, io mi trasformavo. Mentre inseguivo i miei sogni, all’Università, mi libravo nel cielo dei libri. Non sapevo ancora che sarei precipitata, mentre uscivo per gli spritz in Piazza delle Erbe o andavo a ballare durante i mercoledì universitari. Ma poi è successo. E sono cascata. A cosa mi serviva fare la commessa part time, distribuire volantini o tormentare poveri clienti dentro a squallidi call center? La morte di mia nonna mi aveva dato il pretesto per tornare. 

Non ero andata al funerale perché i funerali mi terrorizzano. E così nessuno mi aveva riconosciuta. Ero andata in silenzio alla sua tomba, dopo. E, in silenzio, ero tornata.

 

Lavoro con concentrazione. Le pareti color crema della stanza mi rilassano. Ora, dalla finestra entra il cielo grigio, nuvole color panna si spostano attraverso le tapparelle. La cliente è a pancia in giù. Sto attaccando il retro dei suoi polpacci. 

“Sembra che pioverà” dice.

“Speriamo di no” rispondo meccanicamente. 

“Mah, io spero di sì. Le uniche volte in cui mia figlia viene a trovarmi è quando piove”.

“Cosa fa di bello sua figlia?”

“Fa la hostess per la compagnia Emirates. Non ha voluto restare qui”.

Non mi stupisce, vorrei dire. È capitato anche a me, vorrei aggiungere. Ma resto zitta.

Dopo il lavoro torno verso il parcheggio, calpestando un tappeto di foglie arancioni. Il vento si sta alzando. Prendo l’auto e torno a casa, guidando sotto la pioggia. La mia cliente aveva ragione. Ha cominciato a schizzare, una pioggerella sottile e insistente. L’acqua liscia e piatta, ai lati del ponte, sembra una palude. Poi la campagna, oltre il ponte. Impreco contro un autobus che va lento, forse per paura di scivolare. Infine, arrivo nel mio appartamento. Butto la borsa in un angolo, tolgo i jeans e le scarpe e mi distendo sul divano. Rimango a guardare Facebook con gli occhi semichiusi fino a quando un commento sotto il post di un’amica non colpisce la mia attenzione.

“Torno a Grado”.

Anche lui. Dunque capita a tutti? Tutti prima o poi torniamo dalla città in cui ci eravamo trasferiti pieni di speranze? Sono davvero capaci di offrirci solo stanze singole o doppie e tasse universitarie da pagare, le città in cui ce ne andiamo a studiare? 

Continuo distrattamente a guardare post di ex compagni di classe dal profilo fasullo che ho lasciato attivo. Profilo col mio vero nome in cui però non sono più io. Dove fingo di essere ancora a Padova.

È stata davvero una buona scelta, questa di tornare e restare? E se me andassi lontano, ancora più lontano, come la figlia della mia cliente che viaggia e non si ferma mai? Vado sul profilo della cliente, so come si chiama: Sandra Sandori. Ha pubblicato un post esultante: “Domani cena in famiglia” c’è scritto prima di mille smiles. E, sotto, una foto con #lamiabambina e un tag che appena vedo mi fa prendere un colpo. Sì, perché la bionda bambina taggata di cui apro subito la pagina non è che lei, quella a cui io ho usurpato l’identità: Bianca Mari. 

E adesso? Cosa farò?

È psicologa psicoterapeuta. Laureata e specializzata a Padova, dove ha vissuto per tredici anni, da tre è tornata nella sua città di Grado per ricoprire l’incarico di Assessore alle Pari opportunità. Appassionata di libri, i suoi autori preferiti sono: Banana Yoshimoto, Italo calvino, Charles Dickens, Marguerite Duras, Joyce Carol Oates. I miei compagni di scuola dicevano di me: ma quanti libri leggi in un giorno? Il libro che ho sul comodino: Scrivere zen e i Diari di Etty Hillesum. Domani vorrei: Diventare una scrittrice più famosa di Stephen King.