La linea inceppata
Jobel e Gregoire
Celestin ha 18 anni.
Da nove mesi è inceppato ad un tronco d’albero gigante, sradicato dal terreno, appoggiato in un angusto spazio.
Inceppato in un angolo di tugurio, fra i suoi escrementi che vengono regolarmente ripuliti dai familiari.
Inceppato in un buco di capanna in cui filtra un solo raggio di sole.
Diciotto anni: un adulto per la Costa d’Avorio, il paese in cui vive.
Ma ha un problema: da nove mesi sente delle voci che gli parlano. Voci a cui lui risponde. Regolarmente.
Questo ha spaventato i suoi genitori e tutti gli abitanti del villaggio, che si sono rivolti allo stregone.
Celestin è ovviamente indemoniato.
Non esiste altra spiegazione nella cultura sub-sahariana.
Se fa cose strane, se si comporta in modo strano, se dice cose, se sente cose, allora è posseduto dal demonio.
La malattia mentale non è contemplata in questa parte di mondo.
Gli atteggiamenti strani, quelli che derivano dall’incontro con suoni o immagini che altri non percepiscono, quelli che derivano da un atteggiamento di profonda prostrazione, perfino quelli che derivano da una crisi epilettica, sono atteggiamenti che si sviluppano perché un Demone si è impossessato della persona (della donna, dell’uomo, ma anche del bambino) e le uniche cose che si possono fare sono: allontanare la persona, portarla lontano da casa e abbandonarla oppure si può tenerla nel villaggio, alla periferia dello stesso, ma legata, incatenata, inceppata.
Bloccata in modo che non possa muoversi, camminare, spostarsi.
Perché così evita di farsi del male, di fare del male agli altri e soprattutto evita di trasmettere ad altri il demonio.
Celestin ha già visto altri abitanti del villaggio morire incatenati.
Sa che non c’è più speranza. Chi viene incatenato non viene più liberato.
Ma il 24 novembre 2013 Celestin vede entrare Gregoire Ahongbonon.
Un uomo magro, non molto alto, ma molto determinato.
Con un sorriso che spacca i ceppi.
Con un tocco che trasmette amore.
Gregoire entra nel suo tugurio, gli si siede accanto, gli chiede come si chiama e cosa fa là.
Lui ha già parlato con il capo villaggio, gli ha già chiesto di poter vedere il ragazzo e di poterlo portare in un centro di accoglienza.
Perché la malattia mentale è una malattia come le altre, le persone devono essere curate e quindi vanno amate, ascoltate, trattate con i farmaci, va loro ridata dignità.
Di questo si occupa Gregoire nei suoi centri. Di questo e di tante persone.
Perché poi c’è Rebecca.
Rebecca vive sul marciapiede di Tagblibo e si confonde con i colori di quel marciapiede.
Dopo tanti giorni, dopo tanti incontri, accetta di venire nel centro di Zooti per farsi accudire, per farsi coccolare. Per permettere a questo filo di fumo di donna di emergere dalla corazza di cui si è circondata per tanti anni.
Rebecca, che ha un sorriso dolce come il miele, uno sguardo intenso.
Che rimane al centro anche se sa che non è casa sua.
E poi c’è Ismael, che voleva fare il dottore, che viveva sotto una barca capovolta sulla spiaggia di Lomé e che è diventato l’aiutante di Martin, l’infermiere, e aiuta gli altri ospiti dei centri ad assumere la terapia.
Questa è solo una parte dell’esperienza che l’associazione di cui faccio parte, la Jobel Onlus, di San Vito al Torre, in provincia di Udine, mi consente di vivere da oltre 13 anni.
Un’associazione piccola ma grandiosa, con il “grande Baobab” don Paolo, il presidente, con Marco lo psichiatra, Lorenzo il recupera automobili, Gilberto il tuttofare, con Federica la progettista, Anna la psicologa, Debora la piccolina, con Mariella e me, ancora indescrivibili.
Un gruppo di persone che lavorando sul campo, dietro le righe, sopra le righe, dentro le pieghe delle vite di queste persone, portano una goccia di risorsa in questo mare di bisogni. Una goccia piccola, un’idea di aiuto, che è più un aiuto che diamo a noi stessi.
Un’amica nei giorni scorsi parlava di queste persone come di “anime scucite”.
Anime scucite come noi, che stiamo bene quando siamo là, torniamo a casa volentieri, ma non vediamo l’ora di ripartire per rivedere in quegli occhi il riflesso di un fuoco, che noi ancora stiamo cercando.