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Quando il vedere diventa collettivo

Taranto e la Terza Biennale della Prossimità

Gianfranco, in questi ultimi anni ti stai dedicando al tema della “prossimità”. Crediamo sia un concetto che ha molto a che fare con quello che non vediamo, quello che ci sfugge ma che allo stesso tempo ci attraversa, ci riguarda tutti. E allora: come la rendiamo visibile?
Proviamo a fare un esempio. Siamo verso fine maggio: fuori da una scuola elementare, i genitori aspettano l’uscita dei figli. Hanno tutti uno stesso problema: tra meno di un mese sarà finita la scuola, loro lavorano e non sanno a chi affidare i figli. In questo momento sono vicini spazialmente, hanno uno stesso problema, ma non sono “prossimi”. Ciascuno è rinchiuso in un proprio universo, nel quale proverà a destreggiarsi con rimedi individuali, tra nonni (non sempre disponibili), estate ragazzi costose e di poca qualità e altre soluzioni. La prossimità nasce nel momento in cui queste persone diventano consapevoli di avere un problema simile e scelgono di cercare soluzioni condivise. Si parlano, si rendono conto di poter affrontare il problema insieme, si organizzano, si autogestiscono. Non importa quale sarà la soluzione: micro gruppetti di bambini che si ritrovano a casa dell’uno o dell’altro, richiesta alla scuola di utilizzare i locali con impegno a turno di nonni e genitori, o altro. La prossimità nasce nel momento in cui lo sguardo ci porta a vedere che la nostra condizione è simile a quella dell’altro e a scegliere di realizzare la soluzione sotto forma di “prodotto collettivo”.

Concretamente, dove la troviamo?
Questo termine, “prossimità”, solo pochi anni fa risultava ostico e poco comprensibile. Poi le risposte sono arrivate dalla realtà: esperienze di co-housing, edifici in  disuso recuperati a vantaggio della comunità, orti urbani, gruppi di acquisto, cittadini che si prendono cura delle proprie strade, genitori che condividono la cura dei propri figli, e molto altro: esperienze, quindi, in cui le persone individuano un bisogno o un’aspirazione comune, ne scoprono la dimensione collettiva, scelgono di costruire insieme una soluzione condivisa che li vede come protagonisti. Si tratta di esperienze in cui una pluralità di soggetti – gruppi informali di cittadini, Enti di Terzo settore, pubbliche amministrazioni, altri soggetti attivi del tessuto sociale territoriale – collaborano investendo ciascuno risorse ed energie; tutt’altro, quindi, che un disinvestimento dell’ente pubblico, un frutto della carenza di risorse: la prossimità non è il frutto della diminuzione di finanziamenti pubblici, ma della volontà delle persone di essere protagoniste e di costruire prodotti collettivi.

Cosa ostacola e cosa facilita questi processi?
Non vi è probabilmente una risposta unica, ma alcune indicazioni sì. Il punto di partenza è che la “prossimità collaborativa” non è un esito scontato, né conseguito una volta per tutte, anzi va manutenuto e ravvivato momento per momento. In una cultura che ci spinge a sentirci socialmente affermati nella misura in cui possiamo permetterci di acquistare soluzioni individuali, in cui l’apparire, l’apporre il proprio logo sembrano l’unica strada per affermarsi, un’avventura collettiva deve fare i conti con la fatica della relazione, con il fatto che ciascuno tenda a mettere avanti priorità e sensibilità proprie, magari poco compatibili con quelle altrui.
Volendo per brevità indicare una questione a mio avviso cruciale, il primo banco di prova della prossimità è che, al netto delle auspicabili leadership individuali o organizzative, il prodotto sia sempre percepito e presentato come collettivo, di tutti perché di nessuno. Facciamo un altro esempio: un gruppo di associazioni e cooperative si rende conto della possibilità di rilanciare la qualità della vita nel proprio quartiere mettendo insieme le forze: attività sportive, animazione di strada, luoghi di ascolto, un piccolo bar, coinvolgimento dei cittadini in assemblee pubbliche per organizzare iniziative di decoro urbano, ecc. Ciascuno dei soggetti può realizzare un pezzo di questo sforzo. Le cose funzioneranno se e nella misura in cui il prodotto sarà privo dei marchi individuali dei soggetti che vi partecipano e tutto sarà presentato come frutto di un’entità collettiva. Il giorno in cui il presidente di una cooperativa un po’ più grande delle altre rilascerà un’intervista al giornale locale enfatizzando il ruolo della propria organizzazione, ci sarà subito un altro soggetto che rivendicherà il proprio maggior contributo, un altro che dirà che se si tratta di “un’iniziativa di quelli lì” allora ritira la propria adesione, ecc. In un attimo il prodotto collettivo svanisce e si ritorna ad una somma di iniziative individuali, alla competizione. Il ruolo della leadership in un prodotto di prossimità è proprio questo: far sì che ciascuno senta il prodotto come proprio perché nessuno se ne appropri.

Come ci descrivi la terza Biennale della Prossimità che si è tenuta a Taranto dal 15 al 18 maggio?
Innanzitutto dicendo cosa non è. Non è un convegno, non è un evento, non è un momento a cui si va per ascoltare oratori titolati e illustri. In primo luogo i quattro giorni tarantini sono stati l’esito di un percorso durato più di un anno in cui si sono “sovvertite le carte” rispetto alle aspettative che comunemente si sviluppano in queste situazioni. Non “chi è indicato nel programma” o “quale organizzazione ha un ruolo di maggior rilievo”, ma “come possiamo costruire insieme un contesto in cui tutti possano esprimersi, scambiare esperienze, costruire relazioni”. Sì perché questo è lo spirito della Biennale della Prossimità: fornire una piazza in cui le persone possano intrecciare relazioni, raccontare, ascoltare altri operatori o volontari impegnati in iniziative di prossimità. Senza loghi che prevaricano sugli altri, con la consapevolezza che si sta costruendo un prodotto collettivo che non è proprietà di nessuno e che proprio per questo è sentito da tutti come proprio. Ecco, questo è il popolo della Biennale, che ormai da tre edizioni si ritrova in una diversa città. E in Biennale trovano il modo di relazionarsi con una pluralità di registri, dal racconto alla testimonianza, dall’arte alla convivialità, attraverso i diversi format: oltre 120 eventi, frutto delle proposte degli oltre 170 iscritti: incontri tematici con facilitatori tra chi opera in uno stesso ambito, spettacoli teatrali, cinema, musica, iniziative di animazione di strada, momenti di condivisione, iniziative di protagonismo giovanile.

Ci racconti un evento?
È difficile, in questa ricchezza di proposte, scegliere un evento da raccontare. Dovendo farlo, forse il momento che meglio rappresenta la Biennale della Prossimità è la cena di strada. Se ne è discusso molto, durante il percorso preparatorio, ragionando se affidarsi a soggetti professionali per assicurare un’alta qualità della ristorazione o scegliere altre strade. Alla fine la scelta è stata quella di affidarsi alla disponibilità degli abitanti del quartiere che hanno cucinato e condiviso il cibo tra loro e con chi veniva da lontano. Centinaia di persone in piazza hanno mangiato insieme, condiviso quanto avevano preparato, ballato in piazza. Ma potremmo anche raccontare di Via Duomo, la strada centrale della Città vecchia di Taranto, che nelle giornate della Biennale si riempiva di arte, animazione, mostre, giovani… prossimità.

Perché Taranto?
Perché questa meravigliosa città, che sarebbe sbagliatissimo identificare con i veleni della ex Ilva, rappresenta le contraddizioni del nostro Mezzogiorno, di un modello di sviluppo che ha portato più problemi che vantaggi, ma soprattutto è una città insieme ad una società civile attiva e partecipe che necessariamente dovrà ripensarsi profondamente nei prossimi decenni; e che, speriamo, anche grazie alla Biennale, potrà farlo anche a partire dalla prossimità. E i primi segnali vanno proprio in questo senso, come testimonia il gruppo di persone che oggi sta lavorando insieme nel solco della Biennale, tentando di dare gambe all’idea di disegnare Taranto a partire dalla prossimità.

Classe 1967. Quando provavo a spiegare a mia madre il mio lavoro di cooperatore sociale, alla fine mi chiedeva sempre: “sì, ma di lavoro, invece, cosa fai”. Ora però dirigo una rivista, sono nella redazione di un sito web di settore, faccio ricerca sociale, formazione e consulenze. Di lavoro, però, non so bene. Quando me lo chiedono è un disastro. I miei compagni di scuola mi dicevano “mi passi il compito in classe” e io lo facevo. Avevo un destino segnato nel lavoro sociale. Ho sul comodino numerosi articoli di operatori sociali da pubblicare sulla mia rivista. Correggo, chiedo integrazioni, modifico. Sono il terrore degli autori, che alla fine però di solito sono molto soddisfatti del lavoro pubblicato. Domani vorrei continuare a fare qualcosa di nuovo, come in tutti i domani di questi decenni.