TOP
  /  Rubriche   /  Passaparola   /  Racconto

Racconto

Non conosco nessuno che sia stato a New York. Sembra strano? È solo questione di precisione semantica, o di sineddoche. O Synecdoche, New York, per dirla con il complesso film con Philip Seymour Hoffman, complesso come New York, che però è un’occasione per rielaborare la propria vita. Dicono, ma io non conosco nessuno che sia stato a New York: conosco molti esseri di una specie inferiore che credono di essere stati a New York, e invece hanno visitato Manhattan. Che è a New York, ma non è New York, e appunto quelli che son stati, credendosi viaggiatori, a Manhattan, per sineddoche dicono di essere stati a New York. E comunque, quella Manhattan non è la Manhattan di Woody Allen, naturalmente. Non è la Manhattan, né la New York, di nessun racconto. Eppure, non abbiamo timore di essere smentiti se diciamo che New York è, racconto. Ecco la parola chiave, forse il motivo per cui per Lennon era il solo posto dove (si) potesse vivere. Vale per tutte le città? Certamente, il concetto di città implica quello di racconto, che è il concetto fondamentale: New York Stories, no?, tre storie di grandi registi che “solo a New York”. Per dire che certe storie possono accadere solo a New York, ovverosia che la città è ambientazione (sempre) ma anche personaggio (talvolta), e financo protagonista (assai di rado): quando la città è protagonista, abbiamo buone possibilità di incocciare in un capolavoro, o almeno in un’opera importante, cosa che accade invariabilmente quando ci si imbatte in qualcosa di Paul Auster, o tratto da Paul Auster. Trilogia di New York e Follie di Brooklyn, romanzi, che sfociano (in parte) in Smoke e Blue in the face, movies. Nei quali accade qualcosa di straordinario, a parte il riuscire a non far rimpiangere il testo scritto: ovverosia, che al di là di ogni trama e sottotrama, la città viene raccontata non solo per immagini e dialoghi, ma dalla newyorkesità dei personaggi, che sono, come le loro storie, possibili solo in un’ottica Big apple. La città definisce i personaggi, e la personaggiosità newyorkese dei protagonisti racconta la metropoli. L’opera di Auster è spesso un gioco di specchi e di rimandi anche ipertestuale e multimediale: in Smoke supera se stesso, inserendo il racconto nel racconto, col Canto di Natale di Auggie Wren, storia dickensiana che però ha una chiara nuance newyorkese. Non di Manhattan, proprio di New York; e inserendo nella narrazione per immagini in movimento una subnarrazione per immagini fisse, con (ancora) Auggie che racconta il suo angolo di New York (Brooklyn) con una foto al giorno, stesso posto stessa ora. Auster, e Wayne Wang poi, riesce a narrare New York senza gli ammiccamenti patinati di un Jay McInerney (Le mille luci di New York, libro e film) e senza i cazzotti alla bocca dello stomaco di Hubert Selby Jr. (Ultima fermata Brooklyn, libro e film ben oltre il confine del disturbante), ma ciò sia detto sine iniuria, giacché anche l’ultradegrado di Selby fa, effettivamente parte sia della realtà che della narrazione di N.Y.. Eppoi, le mille luci di New York mostrano, anche, i mille modi di narrare una città. E di farsi narrare da essa.

 Synecdoche, New York

Manhattan

New York Stories

Smoke

Blue in the face

Trilogia di New York

Follie di Brooklyn

Le mille luci di New York

Ultima fermata Brooklyn

Siamo soliti cercare le parole dentro i libri, dentro le biblioteche della nostra anima, sempre pronti a frangere quelle strozzature sociali che tendono ad allontanarti da ciò che è “casa”, da tutto ciò che è curiosità e non il deserto di sé. I miei luoghi della curiosità, luoghi che furono ed ancora lo sono di illustri poeti, musici e narratori, non possono che essere le “Città”, quelle piccole Babilonia dove è facile perdersi, ritrovarsi ma, soprattutto, non esser riuscito a capir una sola parola. Ci sono città che abbiamo amato, città che abbiamo odiato, città che sono l’inizio o la fine di un sogno, città che conducono ad infelici emicranie e città che, come scrisse Neruda, portano a: “Mi alma es un carrousel vado en el crepusculo”. Ma lo stesso Neruda in “La Città”, una delle due poesie che il poeta scrisse per Firenze, soavemente dice: “E guardai dietro la sua bocca i fili abbaglianti della tappezzeria, la pittura che da queste strade contorte venne a mostrare il fior della bellezza a tutte le strade del mondo.“ Poi ancora: “La cascata infinita che il magro poeta di Firenze lasciò in perpetua caduta senza che possa morire, perché di rosso fuoco e acqua verde son fatte le sue sillabe.“ E per chiudere la sublime rilettura divina di una sensazione che Firenze lasciò nel cuore di Pablo: Per questo credo ogni notte del giorno, e quando ho sete credo nell’acqua, perché credo nell’uomo. Credo che stiamo salendo l’ultimo gradino. Da lì vedremo la verità ripartita, la semplicità instaurata sulla terra, il pane e il vino per tutti.“ Quali e quante emozioni può aver percepito il poeta visitando la città che fu di Dante, quale il suo mondo apertosi alla passione per l’uomo visitando i suoi palazzi, visitando i suoi musei e calpestando le pietre che furono dei Medici. Ma ci sono città che sono la storia del Romanticismo, sono l’arcobaleno dei nostri amori, ricordi, passioni. Città raccontate nei film come in una palette di colori sulla tavolozza di un pittore, e Woody Allen in questo ne è l’assoluto maestro, con i suoi film ci ha raccontato città non scontate, Manhattan, Match Point (Londra), To Rome with Love, e Midnight in Paris. È proprio in questo film d’ambientazione parigina che Allen rivela tutto il suo amore celato per la Ville Lumiere, la Babylone Romantique. Parigi diventa ancora di più una città onirica dove il plausibile ed il possibile superano la realtà cronologica riportandoci indietro nel tempo, colorando la città nel cuore della notte con quel blu di Prussia, le scintille di mille luci basse e color seppia che ne illuminano a giorno gli angoli più scuri delle vie e delle feste dentro i locali, senza dimenticarsi della luce che regala alle passeggiate lungo la Senna e le sue ville più belle. “Che Parigi esista e qualcuno scelga di vivere in un altro posto nel mondo sarà sempre un mistero per me!” questo fa dire alla bellissima amante di Picasso, e poi, Gil ne innalza le lodi con l’immenso: “Non si può scegliere se Parigi sia più bella di notte o di giorno, ti posso dare un argomento che mette ko sia l’una che l’altra ipotesi… Sai a volte mi chiedo come qualcuno possa realizzare un libro, un dipinto, una sinfonia o una scultura che competa con una grande città. Non ci si riesce, ci si guarda intorno e ogni strada, ogni boulevard, sono in realtà una speciale forma d’arte.”

Questo contributo è stato scritto da Vieri Peroncini e Antonello Bifulco.

Nessun Giorno Sia Senza Poesia nasce due anni fa come oggetto misterioso per gli autori stessi, Antonello Bifulco e Vieri Peroncini, che si trovano d’accordo su un paio di idee in comune: che la poesia si annida un po’ dovunque, anche in luoghi che solitamente non si associano ad essa nel sentire comune, e che nella realtà indicibilmente sordida che stiamo vivendo dal punto di vista eticosocioculturalpolitico c’è un enorme bisogno di diffondere un generico sentimento del bello e del poetico. Iniziata l’avventura con un reading di poesia, i due dioscuri (più o meno) perdono progressivamente il controllo della situazione, moltiplicando le presentazioni di libri, saggi, interagendo con altre realtà poetiche della zona, con musicisti, artisti visivi e più o meno qualsiasi cosa contenga in sé un qualsivoglia afflato poetico. In ciò, aiutati da una pagina social il cui “sottotitolo”, Siate voi la poesia, è stata preso alla lettera da coloro che la seguono, animandola di continuo di numerosissimi stimoli. Per il futuro, questi Bonnie & Clyde della poesia contano, molto sinteticamente dicendo, di perdere ancora maggiormente il controllo della situazione: conoscendoli, si può essere quasi certi che ciò avvenga. Si può fare, ripetono spesso come criptica citazione. E comunque, potrebbe andare peggio: potrebbe piovere.