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Come se fossi Bianca

In mezzo al deserto

Da quassù tutto sembra ridimensionato: le gioie, i dolori, gli stupidi pensieri di noi umani. Volando si dimentica. Il peso della mente si fa più lieve. 

Fra l’aria rarefatta dell’aereo e il suo ronzio costante e sicuro, sospesa a migliaia di piedi dalla Terra, io cammino. Faccio pochi gesti, molti sorrisi. Offro breakfast continentali e spuntini impacchettati sotto vuoto. Sotto vuoto mi sento anch’io. E devo dire che non è una spiacevole sensazione.

 

Dopo alcuni giorni passati davanti allo schermo bluastro del computer, intenta a preparare la mail con cui Bianca Mari chiedeva di essere reintegrata al lavoro, ero andata a schiarirmi i capelli come mi sembrava li avesse quella ragazza incrociata sulla porta della sala giochi, sempre ammesso che quella ragazza fosse veramente Bianca Mari. Così ero diventata di nuovo lei. 

 

La risposta di Emirates non si era fatta attendere. Mi avevano reintegrato e reinviato la divisa che avevo provato subito  rigirandomi davanti allo specchio. La mia nuova immagine usciva dallo specchio della camera, immersa nella penombra, quella camera che ero pronta a lasciare.

Poiché ero decisa a partire subito, come mi ero affrettata a specificare nella mail, la mia partenza era stata fissata per il 26 dicembre. 

Avevo trascorso il Natale mangiucchiando panettone davanti alla TV, guardando quei cartoni che trasmettono durante le vacanze, in questo caso La bella e la bestia e Aladdin, i miei preferiti. Mi ero addormentata sognando lampade magiche, tigri addomesticate e ragazze vestite d’azzurro con la coda di cavallo che si innamoravano di mostri pelosi. La valigia era pronta in un angolo.

La mattina dopo avevo chiuso il mio profilo Facebook, sigillato la casa ed ero partita per la mia nuova vita. La prima tratta iniziava da Milano Malpensa. 

 

Porto spesso occhiali da sole, da allora, per nascondere ai miei occhi la verità, credo, ma solo quando sono fuori dal lavoro. Quando sono sul lavoro, invece, mimo nella mia divisa le istruzioni per salvarsi in caso di tracollo, indico come tirare fuori le maschere per l’ossigeno, mostro dove si trovano le uscite di sicurezza, con gesti ampi sfioro lo spazio fra me e le ali dell’aereo. E per un attimo, sembra di avere le ali anche a me. 

 

Quando scendo, nel tempo libero, fotografo tutto. Ormai ho visto monumenti, giardini, zoo e grattacieli pirotecnici. Conosco tutte le sfumature del cielo. E quelle sono la cosa che mi piace di più.

Ho passeggiato fra i locali a luci rosse di Amsterdam, ho mangiato crêpes bollenti a Parigi, mi sono ubriacata di rum con le mie colleghe a l’Havana, ho rabbrividito sotto la neve fra le cupole dei palazzi di Mosca. Ho attraversato su una barchetta guidata da ragazzini le acque fangose del Mekong, ho fatto il bagno in una piscina al trentesimo piano di un albergo a Pukhet dalla quale mi sembrava di nuotare nel cielo, ho scattato un selfie con una scimmia sulle spalle sulla spiaggia di Monkey Beach a Phi Phi Island e ho mangiato un riso piccantissimo in un locale pieno di insegne fluorescenti in una strada brulicante di Hong Kong.

Il Capodanno l’ho trascorso ballando con una corona di fiori in testa in un chiosco di Bali. Lì l’acqua è cristallina e leggera, diversa dal mare color argento fuso di Grado, il mio mare liscio e bassissimo, a volte attraversato dalle alghe, altre da granchi rossi, con la riva cosparsa da minuscole e pungenti conchiglie. Così basso ma ugualmente capace di ingoiarsi i miei genitori. 

Lì il caldo era perenne, sembrava il regno della gioia ma una gioia effimera, perché si sapeva che era temporanea. Dopo, tutti sarebbero ai loro lavori rimpiangendo le vacanze. Ma io no. Io ormai vivo sempre in vacanza, il mio lavoro è spostarmi da un luogo all’altro, non avere mai un luogo mio, vivere perennemente sospesa su me stessa, sul vuoto, sopra l’orlo dei miei pensieri che non voglio toccare. 

 

Vivo così da sei mesi e mi ripeto sempre che questa è una vita a cui non voglio rinunciare. Ne sono convinta anche adesso ma qualcosa è cambiato. È successo due settimane fa.

Stavo lavorando sulla tratta Johannesburg – Windhoek, dal cuore del Sudafrica al cuore della Namibia. L’esperienza dell’Africa mi aveva turbato. Avevo già visitato Lagos in Nigeria e Kinshasa in Congo e a Johannesburg, che sui suoi mille e ottocento metri di altitudine lasciava crescere grattacieli immersi in un cielo arancione, avevo visitato il quartiere dove aveva abitato Nelson Mandela, a Houghton. Il contrasto con le campagne aride e cosparse di bambini sporchi e sorridenti mi aveva colpito ma mi aveva anche lasciato uno strano buonumore. Mi ero detta che forse in quella vita libera, ai margini di una strada ma di una strada propria, mi riconoscevo. O forse era stato vedere i bambini giocare con la terra e le madri girare il caffè in grossi pentoloni nei loro vestiti variopinti che mi aveva emozionato. Ad ogni modo non mi ero fatta troppe domande. Però, per il mio arrivo, avevo prenotato una gita on The road che, partendo da Windhoek, mi avrebbe condotto nel deserto del Namib. Dal momento dell’atterraggio avrei avuto sette giorni liberi ed ero decisa a vedere qualcosa di più dell’Africa. Inoltre non ero mai stata nel deserto.

 

Attrezzata con pantaloni da trekking, coperta, T-Shirt e un maglione di pile comprati in un negozio che mi avevano consigliato, avevo lasciato il trolley in albergo ed ero partita con uno zaino. Tutta la mia vita era contenuta in quel trolley che, ancora una volta mi lasciavo alle spalle. Ormai stavo diventando una vera e propria nomade. 

 

La jeep era venuta a prenderci davanti al mio albergo. Io e altre tre persone più una guida e l’autista eravamo salite. L’auto era partita sobbalzando lungo le strade dissestate. Presto avrebbe sobbalzato lungo le dune.

Accanto a me sedeva uno dei passeggeri che aveva viaggiato sul mio aereo. Mi ricordavo di lui. L’avevo visto leggere per tutto il tempo, con il naso immerso in un libro, poi in un giornale, poi in una guida. Una guida della Namibia. In italiano. 

Durante il volo, gli avevo offerto sorridendo una bibita o uno snack che lui aveva rifiutato. Poi, al mio secondo giro col carrello, aveva accettato una tazza di caffè. Coi miei soliti gesti misurati, gli avevo passato la tazza di carta che era sparita fra le sue mani. Lunghe mani grandi che ingoiavano tazze di caffè. E reggevano libri. 

Ora, sedevamo in silenzio pronti per la partenza. Avevamo percorso strade sterrate da cui si alzavano polvere e sabbia. I miei capelli, raccolti in una coda di cavallo, venivano spinti dal vento caldo. Il mio vicino di posto sembrava impassibile. Aveva la testa rasata, una barba bionda e un’aria da intellettuale. Vestiva con dei pantaloni color kaki e una camicia di jeans. Non era il tipo che avrei immaginato di trovare in un safari nel deserto. 

 

Gli altri due erano una coppia di ragazzi pallidi. Lei coi capelli biondissimi, quasi bianchi, e lui, castano e col viso largo, l’aria decisa di sa viaggiare. 

Traballando sulla jeep, avevamo intravvisto due rinoceronti bianchi che si confondevano con la sabbia, arbusti pallidi che si alzavano dal terreno e nuvole basse che sembrava volessero appoggiarsi sulle nostre spalle. Guardando i rinoceronti alla ragazza era scappato un brivido.

La prima notte l’avremmo passata in un lodge, cioè in un complesso di mini appartamenti per turisti, poi avremmo abbandonato il lusso e ci saremmo immersi nel deserto vero e proprio, accampandoci in tende, dormendo sulla sabbia, nei nostri sacchi a pelo, sotto l’aria fredda dell’Africa notturna. 

La prima sera ci aspettava un aperitivo con frutta fresca e una cena a buffet in un chiosco sotto la luna. Tutto era ancora molto turistico, molto tranquillo. Tra i lodge disposti a semicerchio c’era una pozza d’acqua alla quale si abbeveravano alcuni facoceri e due galline faraone, che erano molto buffe.

Ci sentivamo un po’ storditi per le ore trascorse in auto. Avevamo fatto una doccia, ognuno nel suo alloggio, bevuto il nostro drink e scambiato alcune parole di circostanza. Lui e lei si chiamavano Andrew e Jennifer, erano inglesi. Jennifer guardava con aria preoccupata la pozza d’acqua, i facoceri e sobbalzava ogni volta che una gallina si spostava. Lui sembrava sempre più arrabbiato ogni volta che guardava lei. Qui si mette male, avevo pensato. E infatti, dopo il primo drink avevano cominciato a litigare. Morale della favola: lei si era rifiutata di continuare il viaggio, terrorizzata all’idea di poter incontrare insetti, zanzare e lamentandosi della sabbia che le andava dappertutto. Con le lacrime agli occhi accennava al lodge, è così bello lì dentro, diceva, comodo, fashion, bastava non uscirci, secondo lei, e tutto sarebbe andato per il meglio. Sarebbe stata una vacanza fantastica. Lui sembrava furioso. Jennifer era riuscita a trascinarlo nel lodge e da lì non erano più usciti.

La mattina dopo, la guida ci aveva informato che avremmo proseguito il viaggio da soli.

Il mio compagno di viaggio si chiamava Davide. Era laureato in architettura e da un po’ di tempo si interessava ai deserti. Perché?, avevo chiesto. Perché mi interessa l’architettura dei deserti. Non faceva una piega, in un certo senso. E, in un altro, non voleva dire niente.

Eravamo ripartiti, io e lui, con più spazio nella jeep e la guida che ci avrebbe avvertito quando avremmo dovuto accamparci. Davide mi aveva passato il libro sulla Namibia senza dire una parola. Da lì avevo appreso alcuni dati sul territorio, il fuso orario, il grado di calore della sabbia. Gli avevo ripassato la guida.

“Preferisco vedere con i miei occhi”. Avevo detto. Lui si era ripreso il libro. 

Lungo la strada si alternavano sabbie rosse e giallo ocra e poi montagne, rocce. Avevamo sfiorato le montagne del Tsaris, vicine alle Naukluft Mountains, un luogo per il trekking che sorgeva tra sorgenti naturali inserite in un paesaggio di montagna. La guida ogni tanto si voltava per dirci qualcosa ma per lo più sembrava immersa nei suoi pensieri. Il suo aiuto ci sarebbe servito soprattutto per montare la tenda e accamparci. Era evidente che quello era l’aspetto che le interessava di più. 

“Sai che il deserto del Namib è arido da più di ottanta milioni di anni?” Mi aveva detto Davide. “Questo fa di lui il deserto più vecchio del mondo”. 

“Sì, è affascinante”. Avevo detto. “Un deserto antico come il mondo”. Mi aveva sorriso. Finalmente, avevo pensato. Avrei creduto che anche il suo viso fosse desertico. Anche se nessuno, meglio di me, sa che cosa può celarsi dietro una finta indifferenza.

 

Alla sera ci eravamo accampati, la guida aveva acceso un fuoco, l’avevamo aiutata a montare le tende, l’autista si era addormentato subito dopo.

Avevamo rosicchiato davanti al fuoco degli spiedini appena arrostiti di qualcosa che non volevo sapere cosa fosse e bevuto delle birre, tenute fino ad allora al fresco in una borsa termica. Poco lontano da noi si stendeva l’immensità. Il caldo del deserto aveva lasciato il posto a un freddo tagliente. Ero andata a dormire nella mia tenda dopo che la guida ci aveva raccontato storie del luogo in un inglese misto a un dialetto che le rendeva incomprensibili. Davide invece sembrava capire tutto.

Il mondo è davvero incomprensibile, avevo pensato addormentandomi. Quando mi ero risvegliata, due occhi mi fissavano nell’oscurità.

 

Non erano umani. Erano grossi, gialli e bianchi. Attenti, vigili. Pronti a scattare. Gli occhi di un animale. Forse una lince. Se avessi gridato mi avrebbe attaccata.

Poche altre volte nella mia vita ho avuto paura come in quel momento. Cercavo una via di fuga ma ero immobile. Volevo urlare ma mi era uscito solo un mugolio. Poi avevo sentito un fruscio. Un altro. L’aria nei polmoni era finita. All’improvviso da fuori era arrivato un urlo, Davide era corso con una fiaccola o qualcosa del genere. Dietro di lui si affrettava la guida. Il fuoco aveva spaventato la bestia che era scappata.

“Era solo un’antilope, e più spaventata di te”, mi aveva detto la guida. Era andato a prendere del tè da un thermos. L’autista invece dormiva ancora. 

“Grazie”. Avevo bisbigliato a Davide. Avevamo bevuto il tè tutti e tre, lentamente. La notte era sempre più fredda. 

 

“Se è tranquilla, io vado a dormire. Terrò il fuoco acceso”. Mi aveva detto la guida in inglese.

“Ok”. Avevo risposto. Non volevo mostrare di avere ancora paura ma ne avevo. 

“Se fossi in te avrei paura a dormire da sola”. Aveva osservato Davide.

“Infatti ne ho”.

“Restiamo a parlare?”.

Eravamo rimasti a parlare a lungo. Poi ci eravamo addormentati tutti e due piegati sul mio sacco a pelo, come due bambini che crollano sul divano mentre guardano il loro  cartone davanti alla TV.

Il giorno dopo, ci eravamo spolverati con imbarazzo la sabbia dai vestiti stropicciati e dopo esserci lavati la faccia in una bacinella piena d’acqua e fatto colazione, avevamo continuato il viaggio.

 

“Sai, è l’antichità di questo deserto ad affascinarmi”. Aveva detto Davide quel pomeriggio.

“È così arido, uno si aspetta che sia morto e desolante, invece è vivo e cambia nel tempo, non resta immobile. La trovo una cosa incredibile”. 

“È vero”. Avevo annuito. 

Quello era un deserto vivo. Un deserto arido ma anche sassoso, rosso e montuoso, un deserto a tratti cosparso di nebbia, la cui umidità faceva proliferare specie speciali. Un luogo vasto come la nostra anima. 

“Non so dirti come sia nata la mia ossessione per i deserti però è nata. Credo sia sorta da una certa insoddisfazione”.

Lui aveva lavorato a Milano.

“Ho progettato scuole, ristrutturato case, si può dire che sia riuscito nel mio lavoro eppure a un certo punto è nato in me il bisogno di spazi aperti, senza confini. Io, che sto sempre in casa, chino su una scrivania a progettare qualcosa o su un libro per informarmi del mondo, mi sono accorto che non sono stato poi in tanti luoghi. Per questo, da un po’ di tempo, ogni anno, durante le ferie, prendo e vado ad esplorare deserti. Questo è già il quinto. Ma mi sorprendono sempre”. 

Era bello sentirlo parlare, sentire che c’era qualcun altro che conosceva il sapore della solitudine e stava combattendo per riuscire ad uscirne. Lui aveva compiuto il percorso inverso, rispetto a Giacomo. Mentre Giacomo aveva rinunciato al suo amore per i luoghi per trovare un porto sicuro, Davide era uscito dal suo porto per inoltrarsi in uno spazio senza confini, per imparare a non avere più paura del caldo, del freddo, della notte, della solitudine. Lo capivo. 

“Come ti chiami?” Mi aveva chiesto. Solo in quel momento mi ero accorta di non avergli ancora detto nulla di me. Ho avuto un solo attimo di esitazione, poi gli ho detto la verità: “Arianna. Mi chiamo Arianna”.

“È un bel nome”.

“Grazie”.

Non lo sentivo pronunciare da un po’ e mi veniva da piangere. 

Attorno a noi, stava calando il tramonto. Eravamo pieni di deserto, di caldo nelle ossa, di paesaggi lisci, piatti, di dune accarezzate dal tempo che ci erano entrate negli occhi, sotto la pelle. Eravamo semplicemente lì. Nei giorni successivi, un po’ alla volta, gli avrei raccontato sempre più di me. Tranne del mio passaggio di identità perché di quello mi vergognavo. 

 

Lui aveva fatto altrettanto. Mi parlava degli altri deserti che aveva visto, di come sopportasse poco, da qualche tempo, la presenza delle persone. Avevo intuito che qualcuno lo aveva deluso e che non era più disposto a sopportare altre delusioni. Il suo viso ovale e leggermente appuntito, mentre parlava, era molto serio. 

 

Intanto continuavamo a inoltrarci nel deserto. In quell’auto, con i soliti vestiti addosso e i capelli lanciati nel vento, spinta sempre più all’interno di paesaggi sconosciuti, immersa nel deserto, sentivo che mi stavo sentendo davvero libera. Non avevo più bisogno di niente, tranne che del mio respiro. 

Il respiro è ciò che rimane a chi è ancora vivo. Forse mi stavo perdonando per essere sopravvissuta ai miei genitori. 

Avevo chiuso gli occhi e mi ero lasciata andare al viaggio. 

Quando li avevo riaperti era ora di montare la tenda.

“Vieni, Arianna!” Mi aveva chiamato Davide. Con un balzo ero scesa e l’avevo raggiunto. Avevamo acceso il fuoco, riso davanti alle storie della guida. Non ci faceva paura più nulla. Quella sera, avevamo passeggiato in mezzo alle dune e lui mi aveva baciato sotto le stelle. 

I giorni che ci erano rimasti erano stati bellissimi. 

 

L’ultima tappa del nostro viaggio ci avrebbe portato di fronte all’Oceano Atlantico.

Per un tratto avremmo proseguito sui cammelli. Il deserto si faceva sempre più infuocato, rosso di dune, acceso di colori bollenti. Avanzavamo ballonzolando sulle gobbe io, Davide, l’autista e la guida. Anche se avevo mal di schiena non mi importava. Andavo avanti come se non avessi fatto altro nella vita che attraversare i deserti e lanciarmi fra le dune sul dorso di un cammello. La solitudine del deserto aveva consolato la mia. Adesso non avevo più bisogno di nascondermi.

 

A Sandwich Harbour avevamo trovato l’acqua. Lì si incontravano i due oceani: quello di sabbia, con le alte dune, e quello di acqua con le sue alte onde.

Sembra che le dune si stiamo ritirando e ci sia il rischio che tra qualche decina di anni questo spettacolo naturale non sarà più visibile, a causa dei venti e delle correnti, sia dell’aria che del mare. Una nebbia sottile ci avvolgeva completamente. 

 

Davanti alla Skeleton Coast, invece, avevamo intrecciato le nostre mani. Su quella costa, una delle più pericolose al mondo, ci eravamo promessi di trovare il modo per continuare a vederci. La Skeleton Coast, la costa degli scheletri, dove si erano incagliati i relitti di tante navi e dove era impossibile per i naufraghi sopravvivere, ci era testimone.

Cosa insolita per quel luogo, a quell’ora del mattino, la nebbia si era dissolta.

 

Da allora ci eravamo sentiti ogni giorno. Chiamate, messaggi, videochiamate. Ero felice. Ma uno schermo ci separava. Dovevamo oltrepassarlo. E presto sarebbe arrivato il momento di rivederci.

Guardavo con ansia il nuovo cartellino col nome che Emirates ci aveva preparato affinché lo appuntassimo sulla divisa. Sul mio c’era scritto Bianca. Avrei voluto cambiarlo. Avrei voluto cambiare molte cose. Essere lì come Arianna. Stavo riflettendo su come fare quando ieri è successo il disastro. Davide aveva telefonato. 

“Come va?”

Aveva chiesto al telefono.

“Bene, e tu?”

“Anch’io, Arianna. Sai, ho appena ricevuto un questionario di gradimento da compilare da parte di Emirates. Mi chiedono com’è andato il volo, com’era il servizio…”

La sua voce era molto agitata.

“Chiedono come siamo stati seguiti. Dalle hostess, per esempio. Dobbiamo esprimere il nostro gradimento, inserire la data di partenza, la nostra tratta, selezionare le hostess che ci hanno accompagnato durante il volo…”

Cominciavo a capire che qualcosa non andava.

“E mi è stato chiesto di scegliere con quale hostess avevo volato… Jessie Hell, Khayla Faver o… Bianca Mari…”

“Lascia che ti spieghi”.

“Ho pensato che dovesse esserci uno sbaglio anche se accanto al tuo nome c’era la foto, Arianna… O forse dovrei chiamarti Bianca?”

“Davide…”

“Ho chiamato la compagnia. Non esiste nessuna Arianna Berardi fra le sue dipendenti. Allora ti ho cercato su Facebook. È bastata una breve ricerca e, lo sai? Arianna Berardi non c’è da nessuna parte ma Bianca Mari, sì, eccome, se c’è… Complimenti. Tutte quelle storie patetiche sull’essere orfana, e sola. Altroché che sola. E a quando le nozze? Vediamo… Presto, vero? Con Giacomo. Beh, auguri ancora”. 

Non mi aveva lasciato parlare. Ero annichilita.

Davide non voleva più vedermi perché credeva che io fossi Bianca.

Arianna per lui era solo una finta. Un’invenzione che avevo creato per ingannarlo nel deserto.

 

Il mio profilo Facebook non c’era più. La somiglianza con Bianca Mari ormai era sconcertante. Anche se gli ultimi mesi nel deserto e a Dubai avevano reso la mia pelle dorata, lui non ci aveva fatto caso. 

Mi sono precipitata sul profilo Facebook di Bianca Mari. Per qualche strano motivo neanche lei scriveva da parecchio così la mia abbronzatura poteva essere anche la sua. Ho chiuso gli occhi e mi sono lasciata scivolare sul pavimento. Mi sentivo come se non fossi mai esistita.

 

La notte non passava. Distesa nel mio letto, con gli occhi spalancati, guardavo il soffitto. A Davide mi ero presentata come Arianna. E lui, Arianna, l’aveva rifiutata. Forse, se fossi rimasta Bianca Mari, così decisa e indifferente nei confronti delle scelte, sarebbe andata in modo diverso? Forse, se avessi finto ancora… Ma con lui non avevo finto. Con lui avevo attraversato il deserto. E adesso sembrava tutto finito. 

 

Sono di nuovo al lavoro, mimo nella mia divisa le istruzioni per salvarsi in caso di tracollo, indico come tirare fuori le maschere per l’ossigeno, mostro dove si trovano le uscite di sicurezza, con gesti ampi sfioro lo spazio fra me e le ali dell’aereo.

Tra poco dovrò preparare il continental lunch e alla fine del volo atterremo a Ginevra. Quanto dista Ginevra da Milano? Trecentodiciassette chilometri. 

E quanto dista la mia posizione attuale dalle dune del deserto? E dalla mia libertà? Quanto dista la mia vita di ora da quella di prima e da quella che conducevo prima ancora? Quante vite ho attraversato in questi anni?

In queste ultime notti ho riflettuto molto.

Sono stata Arianna Berardi e Bianca Mari. Ma sono stata anche molte altre. Sono stata bambina, orfana, adolescente, studentessa, estetista, hostess, innamorata, amante, solitaria galoppatrice del deserto. Adesso è come se tutto si fondesse in un’unica immagine. Vorrei spiegarlo a Davide. Ma mi ascolterà? Non lo so. Però Ginevra dista da Milano trecentodiciassette chilometri.

Appena atterro cercherò un volo che mi porti là.

È psicologa psicoterapeuta. Laureata e specializzata a Padova, dove ha vissuto per tredici anni, da tre è tornata nella sua città di Grado per ricoprire l’incarico di Assessore alle Pari opportunità. Appassionata di libri, i suoi autori preferiti sono: Banana Yoshimoto, Italo calvino, Charles Dickens, Marguerite Duras, Joyce Carol Oates. I miei compagni di scuola dicevano di me: ma quanti libri leggi in un giorno? Il libro che ho sul comodino: Scrivere zen e i Diari di Etty Hillesum. Domani vorrei: Diventare una scrittrice più famosa di Stephen King.