Pietre
Aquileia è una città di fantasmi. E di pietre. Oppure è una città di fantasmi di pietra o di pietre fantasma. Ogni anno gli archeologi scavano e trovano qualcosa. Sarà da decenni che continuano e non hanno ancora finito di scavare. Studenti universitari, ricercatori e i più unici che rari esemplari di archeologi a contratto, si sono alternati qui. Sotto questa terra che noi calpestiamo camminando, ci sono anfore, cocci e frammenti di colonne. Chissà quanti strati di civiltà, case e anni si ammucchiano lì sotto, mentre noi andiamo, indaffarati o pigri, in giro per la città.
Oggi ci siamo dati appuntamento al parcheggio vicino alla Basilica. I suoi muri sono di un giallo caldo, anche se il sole va e viene. Ma nonostante sia nuvoloso, c’è afa, l’inizio dell’estate è sceso dal cielo qualche giorno fa.
Ho scelto una maglietta bianca, quella con la V color fucsia, la mia preferita, e un paio di jeans. Ai piedi ho le inseparabili ginniche. Le metterei anche ad agosto, se non mi sudassero i piedi. Quando arrivo, molti di loro sono già arrivati. Ci siamo visti solo su Zoom, prima, attraverso uno schermo, per me piccolo perché era quello dell’Ipad, che non ci ha permesso di sentire i nostri odori e le nostre sfumature, ma non ha impedito l’instaurarsi di un bel clima. E adesso, qui, sulle panchine di legno usate dai turisti per sedersi, sotto quattro pini, ci salutiamo. Qualcuno è arrivato con la carrozzina, altri col cane. Ci sono dei genitori che fra un po’ se ne andranno. Altri resteranno. Siamo un gruppo accogliente, noi. Chi arriva è il benvenuto.
Ben presto ci mettiamo in marcia.
Non sono un’esperta di Storia, anche se a scuola prendevo bei voti. Ma ciò che è scritto sui libri spesso se ne va, in un angolo impolverato della memoria che non ci importa frequentare. Soprattutto se sono libri di testo, quelli imposti, noiosi, che uno della classe a turno deve leggere a voce alta nelle lente mattine che si passano a scuola, col sonno appiccicato addosso e la voglia di tornare a casa; e magari, ogni tanto, la paura di un brutto voto.
Ma di storie inventate sono molto più esperta. E soprattutto della mia. Non per niente sono specializzata in scrittura autobiografica. Dunque eccomi qua, a condurre questo laboratorio. Camminando, oggi, sveleremo dei pezzi di noi. Piccoli pezzi di memoria o di emozioni, che si staccheranno dai fogli per volare nell’aria e posarsi sulle pietre, fra i cappellini dei turisti, nelle grigie colonne del foro romano che fra un po’ intravvederemo.
Partiamo costeggiando la Basilica. Andiamo sul retro. Con me ho alcune frasi, segnate sul cellulare, tratte da alcuni libri di autori che amo, come Venezia è un pesce di Tiziano Scarpa e Le città invisibili di Italo Calvino.
Ogni tanto mi fermo e leggo, poi scriviamo. Ognuna delle frasi richiama una domanda e per ogni domanda c’è solo un tipo di risposta: quella che sentiamo dentro di noi.
Basta fare silenzio e la risposta si dice, echeggia, si articola come una canzone. Nel mio libro Scrivere zen l’autrice dice che quella è la voce del nostro maestro interiore. Non è sempre facile sentirla. Per farlo dobbiamo stare in silenzio, connessi con noi stessi.
Dopo aver scritto, proseguiamo sulla ghiaia. Camminiamo fra file di pini. Alcuni ciclisti ci superano sulla destra.
Adoro i vicoli stretti, nascosti, sconosciuti, intimi: trattengono, più di altri, le storie riservate della città, scrive Fabrizio Caramagna.
E noi, chiedo, cosa vediamo di questa città? Le mani si affannano sui blocchetti. I passanti ci schivano mentre noi restiamo concentrati con la testa china sulla carta.
C’è chi vede pietre romane, tanti alberi, il porto fluviale.
Siamo entrati, infatti, nel porto fluviale. Qui, una volta, l’acqua scorreva molto più impetuosa, sui fiumi spessi ma domabili viaggiavano le navi cariche di merci e di mercanti che si arricchivano con loro. Adesso, al posto del fiume, c’è uno strato di acqua verde che sembra un prato. Qualcuno getta un sassolino per vedere se è effettivamente liquida. Lo è. Ma non ci si può certo navigare sopra. Proseguiamo. A sinistra, l’acqua limacciosa e piena di muschio, tace. Ciuffi d’erba si alzano fra le pietre.
Sono venuto a sentire gli uccelli
Nelle gabbie delle vetrine
Rivolto tazze di caffè per darmi pazienza.
Città, si può morire
In un finto giardino di begonie.
Scrive Rocco Scotellaro
E noi, chiedo, quali rumori sentiamo nella nostra città? Di nuovo le mani si affrettano sui taccuini. Qualcuno sente le voci della strada, il rumore della notte, il canto dei passanti, l’abbaiare dei cani, e qualcuno il rumore dei sogni.
Ma ormai è quasi ora di tornare. Proseguiamo ancora un po’, sempre più dentro, in questa città che ci respira mentre noi la respiriamo. E alla fine, davanti a un arco di pietra marrone che dà sulla strada affollata di macchine, dò l’ultima consegna: “Regaliamo una parola, o una frase, a questa città”.
E per l’ultima volta si tolgono i tappi alle penne. Si scrive. Io sento il silenzio e la concentrazione.
Dopo leggiamo.
Volete sapere quali sono le parole che abbiamo regalato a questa città?
Basta che camminiate per Aquileia, in un giorno qualsiasi, passeggiando sulla ghiaia, e fra il respiro dei pini e lo scricchiolio dei sassi, lo scoprirete. Là è la nostra storia e là ci sono le parole che ci siamo date. Basterà fare silenzio per sentirle. Saliranno come un canto sommesso dal mormorio delle pietre, che ormai ne sono ricoperte e, un giorno, quando gli archeologi del futuro scaveranno, lì troveranno anche loro, come un’orma sonora che solo i cuori liberi possono sentire.